Il significato del downshifting al tempo del coronavirus



Scendere verso il basso, fare meno, avere più tempo per le cose della vita, prima che per le cose dell’economia, poter dedicarsi a ciò che ci interessa, questi sono i driver di chi ha scelto di fare “downshifting”.

Lasciando volontariamente posizioni di potere, economicamente vantaggiose, per magari dedicarsi maggiormente a scrivere libri e navigare, come il mio amico Simone Perotti, oppure all’arte, come feci io nel 2010, quando scelsi di diminuire i miei impegni in giacca e cravatta nel mondo del software, per dedicarmi alla molto meno remunerativa attività di spostare opere d’arte, a cercarle, ad appenderle e immagazzinarle, a parlare con persone con cui non ero abituato a parlare, artisti, non più ingegneri (a proposito di questo sottolineo che è più facile parlare ad un ingegnere sia inteso).

Il coronavirus ha forzato ad un downshifting, pur coscienti e nel rispetto del dramma delle centinaia di migliaia di ammalati, ma osservando la vita di chi non si è ammalato ed ha dovuto “solamente” restare a casa, alzi la mano chi non ha per certi versi riflettuto della utilità o inutilità reale del correre correre correre
Certo a parte pochi eremiti chi ha fatto downshifting prima del coronavirus non è uscito dal mondo economico, dal mondo produttivo, si è solo limitato ad essere produttivo in campi di maggiore suo interesse. 

Cosa ci ha segnala questa esperienza?

In primis che se si può stare a casa mesi, allora si può stare a casa qualche giorno di più.
Poi che l’informatica e la robotica dovranno fare il possibile per mettere nei lavori meno incentivanti macchine al posto degli uomini, quindi che sempre di più si andrà verso un reddito di cittadinanza, a mio avviso dato a chi studia e a chi contribuisce concretamente a migliorare il mondo in cui viviamo.

Infine ci insegna che il nostro ambiente vitale, la nostra casa, la nostra caverna, comprata con tanto sacrificio, arredata con tanto amore…è degna di essere vissuta un poco più che come dormitorio.

Nelle lunghe settimane costretto in casa non ho potuto usare la mia auto sportiva, non ho potuto gongolarmi con il mio abito alla moda, non ho potuto usare la maggior parte dei miei asset, se non quelli utili a nutrire la mia creatività.
Ho usato i miei dischi (scusate sono del ’70), i miei libri, i tanti comprati e mai letti, le mie opere d’arte.

Il significato delle opere d’arte è esattamente in linea con il downshifting, le opere ci chiedono di soffermarci e, se davvero ci appassionano, addirittura di fermarci.

E’ grazie a questo fermo forzato che ho potuto guardare e riguardare alcune delle mie opere, riscoprirle.

Come ho già scritto l'opera d'arte è il miglior surrogato di una finestra, ti ci puoi affacciare dentro, richiama il tuo sguardo, ti parla. E sì, le opere ti parlano.
Lo fanno anche i libri ed i dischi, solo che i libri ed i dischi non li appendi e il loro piccolo dorso non sempre salta all'occhio dalla libreria (forse per questo spesso amiamo lasciarli in giro e questo è quello che mi manca del cloud), le opere le appendi e dopo che lo hai fatto non sono più un oggetto che possiedi, sono un tuo pari, ti parlano quando lo decidono loro, come vogliono loro e soprattutto, ti dicono sempre cose diverse, in qualche modo ti sconvolgono.

Tutti devono avere opere d’arte in casa, non importa quale sia il budget, non smetteremo mai di dirlo, non serve rinunciare a nulla per inserire arte in casa!

Se non lo hai fatto leggi subito il mio libro “Le tue prime cinque opere d’arte contemporanea” (Amazon), fai un giro sul sito www.deodato.com, prendi qualche centinaia di euro e scrivici.